Il ritratto della Natura

Fra i tanti luoghi comuni che circolano riguardo all’impareggiabile Gioconda di Leonardo da Vinci, uno dei più frequenti sembra riguardare il fatto che vederla dal vivo risulti per molti un po’ una delusione.

È piccola” “Niente di eccezionale” “Sì, bella, però…

Ho una notizia per tutti: non è vero niente.

Si può restare delusi solo se la si guarda con­tinuando a tenere davanti agli occhi le riproduzioni, le chiacchiere, i libri, i film, le interpretazioni, i rimaneggiamenti della pop-art e tutte le sovrastrut­ture che continuamente si esercitano, anche giusta­mente, a dare nuovi significati a qualcosa che da più di cinquecento anni sfugge sistematicamente ad ogni interpretazione.

La prima considerazione che viene da fare, an­dando a trovarla nelle magnifiche sale della “Grande Galerie” del Louvre, è che sta benissimo. E’ in forma smagliante. Con i colori brillanti, le trasparenze, i toni del marrone e del verde cupo che sfumano senza ombra di opacità, come se il tempo non fosse trascorso, o ancor più come se trascorrendo la migliorasse.

L’altra considerazione è che qualsiasi ripro­duzione, anche la più sofisticata, esce irrimedia­bilmente sconfitta dal confronto con la pittura di Leonardo. L’entusiasmante quantità di tonalità che colpisce l’occhio e riempie lo sguardo, i riflessi della pelle del soggetto in primo piano e la profondità assoluta del paesaggio sullo sfondo, nulla di tutto questo si riesce a ritrovare nei poster, nelle carto­line, nelle riproduzioni digitali come nei migliori “falsi d’autore”. È come se in qualunque ripro­duzione mancasse una dimensione, probabilmente la terza, quella che rende quella diabolica tavoletta di legno uno spazio che esce in avanti, dilaga ai lati, fugge in profondità verso l’orizzonte (diremmo verso la linea d’orizzonte).

Inoltre sono proprio le sue dimensioni fisiche, che spesso deludono i visitatori più distratti, quelle che invece dovrebbero dare la misura più tangibile dell’immensità di questo ritratto. Anzitutto non è piccola, è della dimensione giusta. Guardandola dal vero ci si rende conto che sarebbe davvero impro­babile immaginarla più grande o più piccola.

È esatta.

E poi, per piccola che sia, riempie la sala. Ma la riempie non perché è posizionata al centro e ricopre giustamente il posto d’onore (oggi, una volta era su una parete insieme ad altri quadri). La riempirebbe anche se fosse scaraventata in un angolo. Non c’è scampo. È un quadro che illumina tutti gli altri, li inonda di luce, di senso, e nello stesso tempo li uccide.

Nella sala che la ospita ci sono altri capolavori, tra l’altro di dimensioni spropositate. In particolare, proprio di fronte a lei, troneggiano Le nozze di Cana del Veronese, un quadro magnifico di sette metri per dieci. E lei lì, con i suoi miseri 77 centimetri per 53, lo copre, lo offusca, lo abbraccia, magari anche amorevolmente, e abbracciandolo lo soffoca, gli toglie luce, distanza, prospettiva.

Nella Sala 6 dell’ala Denon del Louvre ogni giorno si perpetra un assassinio.

La Gioconda, con il suo sguardo miti­camente enigmatico, uccide quotidianamente qua­lunque altra opera d’arte di qualunque grandezza fisica e artistica abbia la sventura di condividere con lei lo spazio. (Del resto, è ciò che fanno anche gli altri quadri di Leonardo che illuminano la Grande Galerie. L’immensa complessità della Vergine delle rocce, l’equilibrio instabile e perfetto della Sant’Anna con la Vergine, il bambino e l’agnello, la perfezione del ritratto de La Belle Ferroniere e l’enigmatico gesto del San Giovanni Battista con la sua croce quasi invisibile. Arrivi abbastanza fresco e attento fino a lì, a circa metà galleria, con gli occhi pieni delle meraviglie di Giotto, del Beato Angelico, di Mantegna, del Perugino e di tutta la storia dell’arte italiana fino al Quattrocento, e poi incontri Leonardo e le sue sfumature riportano tutto a zero. Dopo di loro, tutti gli altri quadri a seguire perdono luce, diventano più opachi, e perfino le meraviglie sei­centesche del Caravaggio sembrano perdere la loro abituale forza selvaggia).

Per non sottrarre anche questo resoconto al­l’inevitabile tentativo di interpretazione del ritratto più eterno e impalpabile che l’umanità abbia pro­dotto, provo indegnamente a darne una anch’io. Ho cominciato a farlo solo dopo la terza visita, come se solo dopo diverse osservazioni ne sia finalmente riuscito ad intuire qualche aspetto (del tutto personale e arbitrario, ovviamente).

Lo faccio (o provo a farlo) partendo proprio dalla sua terza dimensione.

A vederla lì, tranquilla e spietata ad annullare tutti i capolavori che la circondano, si ha la sensazione che La Gioconda appiattisca e tolga spazio e pro­fondità a qualunque altro quadro perché essa stessa rappresenta lo spazio e la profondità. È la rap­presentazione finale e definitiva della ricerca del­l’intera vita di Leonardo: la prospettiva non come linee convergenti verso l’infinito ma come piani sovrapposti dove ognuno sfuma nell’altro senza soluzione di continuità.

Forse ha poco senso con­tinuare a chiedersi chi ritragga davvero. Ci sarà pur stata una modella, un pretesto per un ritratto che necessariamente doveva partire da un “ritratto“, cioè dalla rappresentazione di un soggetto; ma l’attaccamento di Leonardo verso questa piccola tavola di legno, il suo portarsela ovunque nel mondo fino alla morte e il suo continuare all’infinito ad aggiungergli velature, ritocchi apparentemente insignificanti, impalpabili sfumature, a me suggeriscono piuttosto che con gli anni sia diventata la migliore rap­presentazione di ciò che Leonardo indagava da tutta la vita: il mondo naturale che ci circonda.

Questo, sempre in parte e sempre in forma imperfetta, potrebbe almeno suggerire una spie­gazione alla sua vocazione inevitabile e incolpevole di divoratrice di pitture. Il suo rappresentare la Na­tura (nel senso filosofico che Leonardo stesso at­tribuiva ad essa come entità suprema) la fa essere essa stessa fonte primaria e generatrice di luce, di forme, di distanze, di spazio e di tempo. Ed è allora inevitabile che qualunque altra rappresentazione al suo cospetto venga sminuita.

Sarebbe come portare un quadro qualsiasi, anche meraviglioso, in mezzo alla natura che tenta di rappresentare, immerso nel vero paesaggio che prova invano a riprodurre. Che senso avrebbe a quel punto guardare il quadro?

Ecco perché qualunque altra pittura, non solo in quella stanza ma anche negli spazi intorno a lei, scompare e perde forza e significato.

Gli altri quadri rappresentano o tentano di rap­presentare qualcosa.

Lei invece, semplicemente, è.



Leonardo da Vinci – Monna Lisa (La Gioconda)

(1503-1506) Parigi – Louvre

Una versione di questo articolo è anche pubblicata nella raccolta “Attraverso le forme”
https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/arte-e-architettura/39600/attraverso-le-forme/

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